domenica 23 ottobre 2016

autoritratto di un frammento della mia memoria.



C'è una foto a cui tengo molto: la fece mio zio Gianni tra il 1982 ed il 1984, non importa l'anno preciso. In questa immagine si vede un bambino magro, lentigginoso, con due incisivi "importanti" messi in evidenza da un sorriso che gli fa socchiudere gli occhi. Questo bambino ha le spalle nude, è estate, si trova nella casa a mare dove la sua famiglia trascorre le vacanze estive. Quel bambino sono io tra i sei e gli otto anni. Ricordo perfettamente l'istante in cui mi fu scattata questa foto: ricordo il calore dell'estate, la brezza marina, la serenità del momento, la tensione dei muscoli del viso per tirar fuori quel super sorriso, il gusto del succo di frutta alla pera e della brioscina con la nutella che avevo appena mangiato a merenda. Ricordo anche la posizione di mio zio, davanti a me un bel po' chinato per fotografarmi dalla giusta altezza. Ricordo anche tante altre piccole cose, altre no.

Della mia infanzia credo di avere molte foto, non ne sono sicuro perché non ho mai sentito la necessità di scorrere la mia vita attraverso le immagini di me. Crescendo e soprattutto da quando la mia vita è basata sulla "fotografia", ho sempre di più compreso che l'immagine non è l'unica parte del ricordo: un ricordo è l'elaborazione che il nostro cervello fa di un mix di sensazioni tattili, odori, suoni, sapori e anche immagini. Una volta elaborate, il nostro cervello decide se conservare tutto o una parte a lungo oppure no. Il bello del ricordo è che si tratta di un qualcosa che non è per forza totalmente aderente al reale, ma semplicemente è il nostro punto di vista su un dato momento che il nostro cervello ha deciso di archiviare per un tempo lungo. Ora, io non ricordo ogni istante della mia vita, ma neanche ogni giorno, e neppure ogni mese, non saprei dire neanche se ricordo almeno una cosa per ogni anno della mia vita (non vado oltre perché altrimenti si capisce che sono un po' rincoglionito), ma questo non vuol dire che il mio cervello si sia perso qualcosa: significa soltanto che il mio vissuto è racchiuso in una serie di informazioni, molte più di quello che immaginiamo, che il cervello conserva e tira fuori quando necessario, oppure tiene nascoste per qualche motivo.

Da un po' di tempo ho un'immagine apocalittica nella mia mente: un mondo in cui la memoria dell'umanità, i cui cervelli sono ormai incapaci di trattenere le informazioni derivanti dai sensi, è racchiusa in sequenze di zero ed uno dentro memorie elettroniche.

Vedo ogni giorno una grandissima quantità di persone che delega alla memoria di uno smartphone il dovere e l'onore di raccogliere i propri ricordi: ai concerti, in vacanza, in famiglia, ovunque non esiste situazione che "per non dimenticare" venga fotografata e archiviata nella memoria di un telefono, senza essere vissuta pienamente. L'attenzione che richiede l'utilizzo di un media come lo smartphone, ci toglie la possibilità di raccogliere le sensazioni necessarie per costruire un ricordo. Non viviamo appieno quel momento. Ovviamente non generalizzo, a volte si ha l'esigenza di fermare un istante con una foto, a volte se ne sente la necessità, mi riferisco agli eccessi, ed ognuno che leggerà queste righe sa a cosa mi riferisco.

Faccio il fotografo (almeno credo), dunque è ovvio che io non abbia assolutamente pregiudizi sulla fotografia, ed infatti qui non si parla neanche di fotografia, non parlo di analogico, non parlo di digitale, non parlo dell'uso terapeutico della fotografia, non parlo di quel tipo di appassionato che scatta milioni di foto inutili per il mondo intero ma utili per lui, non parlo di chi scatta anche quando non ne ha voglia ma deve farlo per vivere, non parlo di nulla che da vicino o da lontano si possa avvicinare alla fotografia, ma di annullamento dell'Io davanti alla vita.


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